231

Vivemmo;
fu semplice:

affrontammo l’onda
della porta
e del lavandino,
l’onda dell’albero,
quella, più grande, del cielo

il nostro corpo
fu un piccolo veliero
in balia;

crescemmo insieme,
crescemmo le nostre rose
insieme: qualche seme difficile
nella sabbia.

Sfiorimmo l’eterno all’estremità,
dov’è che nasce la vita e sfiorisce:
per me sangue dal braccio (esce)
gambe gonfie per te (senza sensitività).

È un ricamo sottile la memoria
adesso, come di vecchie
donne che sferruzzano:
due cose strette

fummo noi i ferri.

Chi più soffrì?
Chi fu più crudele?

Ce ne vestirono;
ce ne siamo vestiti:

logorando
chi non se ne veste più
chi ancora.

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230

Il ragazzo cel camioncino della bofrost
aspetta, un sorriso di denti grossi
nel vetro spesso del furgone;
il villoso braccio fuori
dal finestrino, con torbida ostinazione.

Anche tu aspetti, occhiali altrettanto
spessi, gomiti affondati nell’apocalisse
di sole della tovaglia coi limoni;

che cos’è che sostieni? con una mano
sul mento le cateratte del tempo,
nell’altra il momento, di un cartoccio
di latte lo sgretolarsi obliquo.

E mentre parliamo del conto
e della prossima miniserie alla tv
mi accorgo delle cose che non sono (e che saranno)
e di come la vita, anche oggi nascosta,
sia il corredo comune
da portare in dote alla vita.

Sul pavimento poggia la spesa, come
sospesa
alla dogana della morte.

Restano solo cinque foglie sul pero
(in cortile)
felicità è rimanere un po’ più a lungo.

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229 (Dalla telecamera pubblica di Bryant Park)

Ogni cosa passata pur diversa
sei tu.

Sei tu la ragazza con le amiche
che passa il viale delle Americhe
scomparendo in un’intercapedine di blu.

Sei tu che pattini all’alba,
oltre la brinata
sull’erba,
chiusa nella cella d’alberi
attorno alla pista del winter village
libera e spensierata;

sei tu su i milioni di libri
dei magazzini sotterranei
della public library:
il tuo piede armato li varca e non sa…

come non sai che ti guardo
dalla telecamera pubblica
su Bryant Park.

Ecco che spingi un passeggino con sù
un ombrellino blu, piove;
compare la guardia mattutina.

Eccoti nella ragazza dai capelli blu
che tiene per mano un bambino
pingue,
un esserino che piange
per una lattina.

La nostra colpa è la morte,
sulla sesta, all’incrocio con chi va
e mai più s’incontra;
sotto il cartello stradale che dirime i destini,
un San Sebastiano trafitto ed esangue.

Ti guardo e chissà
se mai viviamo alla pari
o sempre uno dentro l’altro
come piccoli ombelichi di luce
che s’intravedano dagli ocelli dei palazzi
intorno, affondati nella città;

nella tua stanza forse ti chiedi
se domani farai yoga
o sarai alla picnic performance.

Chissà se ci passeremo accanto,
se ci saremo dentro
come allo stesso cielo
color di pelle liscio
a sentire lo stesso puzzo dolce
di sudore delle foglie d’autunno marce
lo stesso puzzo dolce di sudore della folla,
di ogni cosa che s’ammassa e muore.

Forse sei tu seduta al tavolo del café
vicino al Jane Elissa Atelier
con un sacchetto di briciole
di pane a estorcere vaticini
ai cinguettii alati degli uccelli – idoli di vento –
forse sei tu catturata al carosello
da filamenti di bambini.

Dimmi che sei tu perché importa,
e che ci apparterremo ancora…
e che la terra ha i suoi fiori
come un bimbo i giocattoli.

Dimmi che sei tu nei cappi mestruali
di tutte le donne che passano
coi loro rituali, in una fuga
di capezzoli intirizziti,
sotto maglioni pizzicanti come ortica,
capezzoli duri come viti
in ruote dentate di biciclette;

che sei tu, di sera, in abito di mica
capezzoli freddi come forcine
a trattenere la propria all’altrui anima.

Dimmi che ogni volta sarai tu,
pur diversa da prima

nelle nocche di vento
nelle ciocche di sole
nelle bocche di ghiaccio.

Ti guarderò passare
dalla telecamera pubblica
su Bryant Park e non saprai.

Eccoti ancora…
lampioni esitano,
la nebbia s’affanna
di mattina nel parco;
qui è già giorno.

Dove sarai se siamo già stati?

Eppure sei tu…
la nebbia ha il tuo respiro,
ha il tuo petto morbido;

sei tu nel tuo tempo perfetto,
a Bryant Park.

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228

Muterà in simbolo
tutto ciò che passa.

Andrà così
e non faremo caso
al buio
alle rughe
sul tuo viso.

Scorreremo in
spirali, in fruscii
di pelle e silenzi

come di uomini
murati, immortali
in carta di riso.

Oltrepasseremo i non ritorno;
ogni cosa si farà cimitero
ammutolito,
ogni strada crocifisso
slogato.

L’esodo sarà compiuto
in un continuo allontanamento,
con uno staccarsi viso
a viso, dalla montagna
al sasso.

Di te mi ricorderò
senza pudore,
come dell’ultima luna:

in un passo rubato…
il brillio di un orecchino
(improvviso)

i capelli nudi
e sfibrati
della notte.

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227

ogni volto è una parte
all’estremità
dell’essere
che aggetta
in difesa

…e fa la ronda alle cose,
con la paura del crollo;

ogni volto fa della coscienza
punti di vista
del desiderio di vivere
esistenza.

Chi sei tu che fra suoni
di stoviglie
e indolenza,
e giochi di parole
e tintinnii d’anelli
t’affacci sul mio viso?

La morsa delle tue voglie
s’inabissa fino alle mie dita.

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